Sugli anziani (anche preti)

La presentazione del mio secondo libro ai preti anziani (una quindicina) è prevista per fine luglio in un albergo del Trentino. Nello stesso periodo sono in vacanza con mio figlio, sua moglie, la mia e i miei nipoti. Sempre in montagna. Siamo però all’estremo opposto della regione. Due ore di viaggio in auto per passare da una valle all’altra. Le stesse che occorrono per tornare a casa. Con poco consenso dei miei familiari, decido di andare, dopo che mi è stato garantita la possibilità di pernottare. Infatti, l’incontro è dopo cena. Faccio la strada normale. Questo comporterà più tempo per il viaggio. Mi godo i vari paesaggi e, a volte, mi fermo per contemplare. Così impiego tre ore al posto di due. Non mi interessa. C’è comunque prima la cena.

A tavola mi fermo con un gruppo di sacerdoti ottantenni, consacrati nello stesso anno. Sono cinque. Qualche compagno di messa ha già lasciato questo mondo. Li guardo e penso: “Quanta ricchezza spirituale c’è nella vita di queste persone! Quante preghiere, quanti incontri e celebrazioni, quante confessioni raccolte!”.

Nell’accogliermi in portineria, la donna che gestisce la struttura, non mi ha riconosciuto tra gli ospiti. Allungandomi le chiavi, hanno disteso lo sguardo interrogativo dicendo: “Ah… lei è il relatore”. Adesso seduto a questo tavolo, con davanti trecento anni di sacerdozio, non mi sento affatto un “relatore” anzi vorrei attingere da questa variegata saggezza. Allora butto lì una domanda:  

“Qual è il momento più bello della vostra esperienza che ricordate?”.

C’è un lungo silenzio fatto di ricordi. Quello che sembra il più taciturno, con un sospiro, tenta di iniziare una difficile risposta, ma il compagno, il più colto del gruppo, lo interrompe dicendo: “Le celebrazioni!”. Mi accorgo che c’è una specie di timida ritrosia nel condividere una vita. Non è facile parlare di ciò che ti ha segnato davanti ad una strana torta di zucchine spacciata dal cuoco come dolce. Io non l’ho neanche assaggiata. Amo i dolci che sono dolci.

Come mi aspettavo, nell’incontro serale, mi hanno ascoltato con cortesia, interagendo anche, ma sempre con il comprensibile sottointeso atteggiamento di chi la sa più lunga, per esperienza e per consacrazione. Ho accolto le varie obiezioni perché sensate e per rispetto di chi ha camminato più di te e ha sulle spalle un’intera esistenza non sempre facile. Ciò che mi ha rattristato è percepire in loro una mancata identità nel servizio. Come se si sentissero messi da parte.  È il destino della vecchiaia nella nostra società. Alla saggezza dell’essere si preferisce il pragmatismo del fare. Anche per i preti.

Dopo l’incontro, mentre mi offrono al bar un amaro, si avvicina un altro ospite dell’albergo, anche lui prete, ma di altra diocesi e quindi non parte del gruppo di chi mi ha ascoltato. Ha più di novant’anni. Un volto dolce con sguardo intenso. Il corpo esile e tremante, piegato dal tempo e forse dai dolori della vecchiaia. Ha fatto per molti anni il cappellano delle carceri. Gli dico che per me è uno dei servizi più difficili perché si è a contatto con tanta sofferenza fatta di rabbia e desolazione. Mi risponde che ogni servizio, fatto a nome di Dio, è difficile. Si congeda subito. Deve andare a riposare. Mi pongo davanti a lui per salutarlo. Con voce flebile, pesando ogni parola, mi dice:

“Anche questa sera devo meditare sulla frase dell’uomo crocefisso” (dice uomo, non ladrone): “Gesù, ricordati di me quando sarai nel tuo regno”[1]. Prendendomi la mano riprende: “Lo chiama per nome! Capisci? Non dice Signore, lo chiama per nome!”. E lo dice con commozione, come se la cosa fosse da meditare.

Sto in silenzio per un lungo attimo, davanti a questa figura che mi sembra un patriarca.

Gli dono il libro, senza dediche, perché è meglio a volte tacere e non scrivere nulla. Le parole sono in più. Spontaneamente, così d’impeto e gli dico: “Mi benedica!”.

Mi mette una mano sulla testa e dopo una preghiera di invocazione, mi traccia lentamente, con il pollice, il segno della croce sulla fronte. Si volta e se ne va come silenziosamente era arrivato. Non ho neppure il tempo di dire grazie.

 



[1] Lc 23, 42

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